“Potere troppe volte delegato ad altre mani, sganciato e restituitoci dai tuoi aeroplani, io vengo a restituirti un po’ del tuo terrore, del tuo disordine, del tuo rumore”.
Al di là dello strazio per tutte queste vite spezzate, oltre il tentativo di capacitarsi delle modalità e del contesto della vicenda, è da ieri notte che non mi esce dalla testa questa strofa di De Andrè.
Mi sembra che descriva perfettamente questo senso di spaesamento, di riferimenti e di aspetti dati per assodati che saltano in pochi secondi.
Queste vittime sono personalmente e singolarmente ovviamente innocenti rispetto al merito degli obiettivi di questa folle azione terroristica. Per non cadere tra le suadenti braccia dell’assuefazione all’orrore, ma per iniziare un nuovo cammino che porti a lungo periodo al disinnesco delle radici di queste dinamiche credo che “gli occidentali” non possano e non debbano rifugiarsi nell’emotività consolatoria, nell’autoassoluzione collettiva, nella ovvia contrapposizione tra buoni e cattivi dove i ruoli sono così scontati dal destare qualche dubbio.
Devono entrare in gioco riflessioni profonde sul nostro modo di intendere, di incarnare, di vivere la politica, le istituzioni, la nostra delega del potere, ormai sempre più costantemente svogliata, anestetizzata e acritica persino quando quel potere arriva ad agire con quegli aeroplani pilotati da interessi economici e territoriali, dispensatori di mortale terrore democratico. L’analogia con le antiche, passate e recenti azioni militari unilaterali della Francia e di molti altri Stati occidentali in Nord Africa è fin troppo scontata. E lo scontro tra civiltà chiaramente non c’entra niente, ne è il frutto mediatico e strumentale al contempo che matura in larghe fasce delle società da una sponda all’altra del Mediterraneo fino a restituirci gli sgradevoli esiti del suo imputridire.
E quindi mentre noi nell’ovattato e agiato fortino psicoideologico dell’Europa-patria-dei-diritti-umani ci gustiamo un gelato festeggiando i pirotecnici Lumi dell’entusiasmante Révolution, ecco che un rivolo impazzito del percolato nauseabondo di quel frutto marcito ci restituisce a suo modo un po’ del nostro terrore seminato in secoli, in millenni di espansionismo, di colonialismo, di neo e post colonialismo; un po’ del nostro disordine inoculato e sobillato nelle nazioni e nelle comunità di quello che nella nostra foga autoreferenziale siamo arrivati a nominare Terzo Mondo senza neanche l’ombra di un disagio o vergogna.
Andava di moda qualche anno fa un disilluso “not in my name”, ora siamo ad un più sanamente edonistico “fate voi”. Ma per non soccombere soffocati nella sabbia sotto la quale nascondiamo le nostre teste di struzzo, le nostre società hanno necessità di ripensare se stesse, le proprie storie, i propri errori. Hanno necessità di ripensarsi da zero, di ricomporsi come entità collettive, pensanti, attive. Solo con una profonda riattivazione culturale, solo attraverso la costruzione di una nuova prospettiva per il proprio futuro e per l’interazione col mondo l’occidente potrà vantare gli aspetti più positivi della sua storia e valorizzare quelli delle altre culture.
Il gioco al ribasso, alla furbizia e al cinismo ci ha portati al fondo. L’Europa ha i preziosi strumenti per poter riprendere un cammino propositivo, dinamico, rispettoso e inclusivo sia all’interno che fuori dai proprio confini. Lasciandosi alle spalle la gerontoburocrazia degli Stati e degli apparati politico-economici sovranazionali, abbandonando i populismi, gli egoismi, i qualunquismi, la paura e il filo spinato, ripartendo dall’insopprimibile vivacità culturale delle comunità, dalle aspirazioni democratiche e gioiose dei popoli e delle nazioni, dal positivo e vitale ruolo delle identità e delle culture. In una nuova interazione interna ed esterna l’Europa può riconoscersi.