[Qualche giorno fa un amico italiano ha risposto ad un mio piccolo articolo sui frutti dell’unità nazionale còrsa con una semplice domanda: “I sardi sono in grado di farlo?”. Questa è la mia riflessione, che non vuole essere niente di più di un immediato flusso di pensiero, scaturita più che altro dal fatto che fosse un non sardo a porre la questione].
I sardi sono in grado di realizzare la loro unità nazionale? La risposta, al di là di anacronistiche valutazioni lombrosiane, è chiaramente sì. Tecnicamente parlando.
La realtà politica sarda è molto diversa da quella di nazioni come Corsica, Catalogna e Scozia – giusto per citarne alcune – nelle quali società civile, forze sociali e partiti hanno finalmente trovato la via per una convergenza di responsabilità nazionale che, temporaneamente oltre le ideologie, consente di sommare il consenso sufficiente per in primo luogo governare la propria terra, risultato già apprezzabile, e in secondo luogo per poter vantare l’autorevolezza necessaria per rapportarsi da pari con i rispettivi Stati di appartenenza e amministrare tendendo al referendum di autodeterminazione.
In questo momento l’indipendentismo politico sardo vive indubbiamente una fase difficile, dovuta ad errori strategici e a tattiche fallimentari del recente passato. Ma fortunatamente, per contro, l’indipendentismo sociale è ben più diffuso di quanto si pensi e sta solamente aspettando di essere valorizzato e di trovare uno sbocco politico che lo completi e nel quale si possa riconoscere. Sono attualmente in corso dei tentativi di unità nazionale tra più o meno piccole realtà politiche, ed è già un ottimo passo, fermo restando che l’unità politica della totalità delle forze in campo non è realizzabile e non deve rappresentare lo scopo dell’azione politica, pena l’inazione. Per unirsi c’è bisogno della volontà di tutti in assenza della quale è meglio concentrarsi sul proprio cammino lasciando all’opinione pubblica e agli elettori il ruolo che gli compete: premiare o punire, supportare o abbandonare.
Il problema, per molti, è l’esistenza di troppi micropartiti la cui esistenza è frutto del fatto che il campo di gioco è ancora, in parte, quello dell’unionismo. Se il campo per la maggioranza delle forze sarde fosse quello dell’autodeterminazione i partitini non scomparirebbero per magia ma perderebbero il loro ruolo a favore della convergenza nazionale che ha nel suo DNA, in quanto tale e a prescindere dai nomi e dalle sigle che la compongono, un sereno e propositivo ruolo egemonico.
Ma anche qualora dovesse realizzarsi l’unità nazionale tra la maggioranza delle forze indipendentiste e dell’area pro autodeterminazione la fase sarda non sarebbe comunque al passo con quelle internazionali a causa appunto della presenza di partiti dell’area nazionale che scelgono – legittimamente ma a mio modo di vedere sbagliando – di sommarsi all’unionismo, di destra o di sinistra che sia. Una fase superata nelle altre nazioni.
Ad onor del vero, nell’ottica di un cammino da fare per allineare la Sardegna alle altre nazioni, può in un certo senso risultare utile anche l’indipendentismo che sceglie di lavorare con l’unionismo nella speranza che da questa interazione possa nascere un grande autonomismo che ragiona e governa da Stato e non da periferia complessata di inferiorità più realista del re, più italiana degli italiani, che comunque tra l’interesse della Sardegna e dell’Italia sceglie il secondo.
Altrove questa scelta sarebbe condannata dall’elettorato come già successo ad esempio in Catalogna quando ERC perse la metà dei consensi dopo aver collaborato con i socialisti spagnoli sia in Catalogna che a Madrid. Ma qui entra in gioco il fattore della coscienza nazionale che in Sardegna è qualitativamente scarso e superficialmente potentissimo.
Il rapporto tra l’identità, intesa come coscienza politica nazionale, e l’innocuo orgoglio folkloristico è inversamente proporzionale.
Orgoglio infatti non è sinonimo di coscienza e non ne possiede la dinamicità culturale e la propositività politica. L’orgoglioso si riconosce nei suoi simili ma non si riconosce allo specchio in quanto elemento di un’identità collettiva nazionale. E quindi spreca l’identità in uno sterile gioco fine a se stesso e chiuso in se stesso invece di capitalizzarla per riconoscere se stesso come portatore al mondo della propria specificità, in un rapporto osmotico fatto di solidarietà e condivisione.
In Sardegna quindi qualsiasi operazione di unità nazionale non può prescindere dal lavoro sui fondamentali, troppo precocemente abbandonato dall’indipendentismo politico degli anni duemila. Cioè creazione di coscienza nazionale, diffusione della memoria storica del popolo sardo, formazione di nuova classe dirigente capace di governare l’Isola in ottica nazionale, progettualità e proposta tematica. Per far questo l’indipendentismo politico ha necessità di recuperare attrattività rispetto alle nuove generazioni e di generare fiducia nelle fasce più dinamiche e attente della società.
Il cammino verso l’unità nazionale dei sardi non è semplice, presuppone una visione a medio-lungo periodo, deve evitare fretta ed emergenzialità e ha bisogno di gesti concreti, di coerenza, pazienza e costanza ma sia chi lo auspica che chi lo osteggia dovrà rassegnarsi alla sua ineluttabilità.