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Roma, 2001. Die de sa Sardigna

Era il 28 aprile 2001, quindici anni fa, a Roma. In occasione de Sa Die de Sa Sardigna la RAS – Regione Autonoma della Sardegna patrocinava un evento al Teatro Vittoria di Testaccio. Si esibiva Piero Marras con il Coro Ortobene e, credo, Le Balentes. Era il periodo dell’album “In su cuile ‘e s’ànima”. Assieme ad una manciata di altri folli come me pubblicizzammo l’appuntamento nelle varie università romane a nome di “Su Cuncordu pro s’Indipendèntzia de sa Sardigna” una comunità di studenti fuori sede e di disterrati dotata di quello che penso rimanga il primo portale indipendentista sardo che all’epoca non aveva ancora neanche un dominio tutto suo e si appoggiava ad un mesto servizio “go.to/”. Il volantino è quello che vedete.

Il concerto fu aperto solennemente da una emozionante versione de “Su patriotu sardu a sos feudatàrios”. Riconoscendolo informalmente come inno nazionale la nostra reazione naturale fu quella di balzare in piedi e di unirci al canto. Tutto il resto della platea, prossimo al cento per certo, rimase impassibile al suo posto e ci guardò con stupore. Ma la reazione più interessante fu quella del rappresentante politico della maggioranza in Regione di cui non faccio il nome sia per carità di patria che per il fatto che la Storia se l’è politicamente portato via. Questo eletto, seduto in prima fila, percepì un qualche trambusto alle sue spalle, si voltò, ci vide in piedi e cominciò a ridere e a irriderci cercando approvazione e consenso tra i suoi vicini di poltrona, peraltro ottenendone.

Capimmo in quel preciso istante che la sensazione di distanza tra la RAS – intesa come la somma di politici e burocrati – e il bene del popolo sardo non solo non fosse un’illusione ottica distorta dalla nostra impetuosa convinzione indipendentista bensì fosse una realtà ma capimmo anche che questo dato di fatto non dipendesse da distrazione o superficialità bensì dettata da una precisa volontà, intenzionale e cosciente, di snaturare qualsiasi minimo appiglio di autocoscienza collettiva dei sardi come popolo e come nazione.

Per dovere di cronaca ricordo che alla fine dell’evento fu proprio Piero Marras a scendere in platea per stringerci la mano e per conoscere questo sparuto gruppuscolo di sardi che avevano avuto l’ardire di manifestare pubblicamente la propria coscienza nazionale.

Sono passati molti anni, abbiamo visto dedicare Sa Die ai temi più disparati, dalla Grande Guerra alle forze armate, abbiamo visto materiali ufficiali con improbabili fotomontaggi di militari sabaudi con Tricolore e Quattro Mori sovrapposti. Abbiamo visto per contro nascere, rinascere e svilupparsi un indipendentismo che in qualche modo e con mille errori ha saputo porre un argine di coerenza a queste derive, proporre un’alternativa a quella stasi anestetica, imporre temi all’opinione pubblica precedentemente semplicemente impensabili, stabilire un’asticella almeno al minimo di dignità sostenibile.

Quindici anni fa a Roma attacchinavamo in solitaria nelle università alla ricerca di sardi solitari che potessero riconoscersi nelle nostre idee. Molti di quei sardi sono tuttora amici e compagni di strada e di vita. Grazie a ciascuno di noi negli anni la nostra idea ha preso nuova vita ed è stata condivisa da migliaia di altri sardi.

Nella fase attuale penso che il dovere morale di ogni indipendentista, ma anche di tutti coloro che semplicemente riconoscono la nazione sarda e il suo diritto ad autodeterminare il proprio futuro, è di non fare neanche un passo indietro in termini di attenzione, di coerenza, di lucidità. E di coesione.

Sa die nostra at a bènnere.

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