Siamo nel settembre del 2000, da poco più di un anno gli abitanti di Timor-Est hanno votato al 78,5% a favore dell’indipendenza dall’Indonesia trasformando la loro terra nella prima nazione a dichiararsi indipendente nel XXI secolo. Il referendum, tenuto il 30 agosto 1999 è stato voluto e appoggiato dalla comunità internazionale dopo un ventennio abbondante di violenze feroci e stragi di civili da parte dei paramilitari indonesiani fiancheggiati dalle forze armate di Giacarta.
Ma Timor-Est dovrà aspettare altri due anni prima di poter istituire il proprio Stato. La vittoria del Sì all’indipendenza ha prodotto infatti lunghissimi mesi di ulteriore furia brutale da parte dei miliziani indonesiani che, supportati o quantomeno ignorati dai militari nella parte indonesiana del territorio dell’isola di Timor, hanno reso tesa e impossibile la vita sociale e politico-istituzionale dell’est indipendente.
La Repubblica Democratica di Timor-Est vede la luce il 20 maggio 2002, dopo circa tre anni di difficile amministrazione da parte dell’ONU e
qualche settimana dopo la schiacciante vittoria (83%) alle elezioni presidenziali del leader indipendentista Xanana Gusmao appena uscito dalle carceri indonesiane dopo sei anni di reclusione politica.
Questo articolo del 2000, nella sua crudezza, ci offre uno spaccato a tratti disarmante dell’ingestibile situazione dell’arcipelago, non solo per le violenze descritte quanto per lo scandaloso intreccio e rimpallo di responsabilità da parte indonesiana ma anche per la frustrante impunità degli autori materiali di vessazioni, soprusi e omicidi di civili e di rappresentanti istituzionali degli organismi internazionali. (fp)
Le Monde Francia Domenica 10 settembre 2000
Il governo indonesiano non ha più i mezzi per ripristinare l’ordine a Timor-Ovest
Jean-Claude Pomonti
BANGKOK. Sono mesi che la comunità internazionale chiede all’Indonesia di neutralizzare le milizie armate che a Timor-Ovest tengono ancora in ostaggio circa centomila persone e che hanno recentemente assassinato selvaggiamente, il 6 settembre 2000, tre funzionari dell’ONU.
Ma il governo indonesiano non ha i mezzi per disarmarle e dissolverle in tempi brevi così come gli chiede il Consiglio di Sicurezza dell’ONU in una risoluzione adottata all’unanimità nella notte di venerdì 8 settembre che prevede l’invio sul posto di una missione d’inchiesta.
Sembra poi che la situazione sia peggiorata a seguito dell’evacuazione di tutte le presenze straniere da questa provincia indonesiana frontaliera con Timor-Est sotto gestione dell’ONU.
Una fonte militare indonesiana ha ammesso che undici persone sono state massacrate in un villaggio periferico nel corso di un raid dei miliziani contro gli est-timoresi che hanno collaborato con l’ONU o con le ONG.
Anche il presidente Abdurrahman Wahid ha ammesso, a New York, che per allontanare le milizie dalla frontiera di Timor-Est – nelle cui file si sono infiltrati alcuni elementi dal luglio scorso – ci vorrà del tempo.
“Ce ne sono migliaia e dobbiamo essere prudenti” ha dichiarato da parte sua il vice maresciallo dell’aviazione Graito Usodo, portavoce delle forze armate indonesiane, a proposito dell’inchiesta sui responsabili delle morti del 6 settembre. In ogni caso sono state segnalate diciannove persone all’autorità giudiziaria.
“È troppo pericoloso” ha aggiunto un sottufficiale al quale l’agenzia Reuters ha chiesto il motivo per cui l’esercito non abbia organizzato un attacco ad un campo di miliziani situato vicino Atambua, la località vicina alla frontiera tra le due Timor dove un c’è stata una sommossa e una caccia allo straniero.
Giacarta ha reagito dispiegando sul territorio un battaglione di riservisti e un’unità di polizia.
Ma i precedenti – come i conflitti nelle Molucche o ad Aceh – lasciano pensare che i rinforzi di truppe hanno poco effetto in quanto una parte dell’esercito tollera i comportamenti di queste
milizie. Come quelle che erano sorte a Timor-Est per tentare di imporre il mantenimento del potere indonesiano sul vecchio territorio portoghese.
Il comandante della regione da cui dipende Timor-Ovest è il generale Kiki Syahnakri, incaricato di gestire la legge marziale nel 1999 a Timor-Est, periodo nel quale le milizie avevano ridotto in cenere quel territorio. Il suo capo di stato maggiore, il generale Mahidin Simbolon, è sospettato di essere stato all’epoca l’ufficiale di collegamento con le milizie.
Inoltre, il principale agitatore di Timor-Ovest sembra essere oggi Eurico Gutteres, il temuto e giovane capo delle milizie Aitarak, principale responsabile degli abusi commessi nel 1999 a Dili, capitale di Timor-Est. Alexander Downer, ministro degli esteri australiano, ha detto che Eurico Gutteres è stato “chiaramente uno degli uomini che hanno guidato l’attacco contro gli uffici dell’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati di Atambua”, il 6 settembre.
Ma Eurico Gutteres beneficia di solidi appoggi – anche politici – a Giacarta e non figura nella lista dei diciannove sospettati consegnata la scorsa settimana alla giustizia indonesiana dopo l’inchiesta del procuratore generale sui crimini commessi da qui a un anno a Timor-Est. È stato addirittura nominato da qualche settimana a capo dei giovani del PDI-P, il partito arrivato in testa alle elezioni generali del 1999.
Da luglio, quando dei piccoli gruppi armati di miliziani sono stati identificati a Timor-Est dove sono stati uccisi due caschi blu dell’ONU, la tensione non ha mai smesso di crescere da un lato e dall’altro della frontiera. Quando un capo miliziano, Olivio Mendoza Moruk, è stato ucciso il 5 settembre, gli spiriti erano già al massimo dell’agitazione possibile. Infatti la strage è avvenuta il giorno dopo.
Crescente anarchia
L’omicidio di Olivio Moruk – testa e testicoli tagliati – è ufficialmente il frutto di un regolamento di conti. Una versione accolta con scetticismo. È possibile che sia stato vittima di una vendetta: era il capo della milizia Laksaur che ha massacrato il 5 settembre 1999, nel paese di Suai in Timor-Est, un centinaio di donne e di bambini e tre sacerdoti.
Un’altra ipotesi che si fa strada: figurando nella lista dei diciannove sospettati ne sarebbe stato eliminato dopo aver minacciato di negoziare il proprio ritorno a Timor-Est.
Il presidente Wahid ha ritenuto opportuno affermare, in un modo quasi patetico, che la situazione è tornata “molto buona” a Timor-Ovest con l’arrivo dei rinforzi di truppe ma in realtà il governo indonesiano non controlla più quella provincia. Il generale Susilo Bembang Yudhoyono, superministro della sicurezza e degli affari politici ha ammesso dichiarando “dato che noi stessi non possiamo controllare la situazione” è il caso di prendere contatti con l’amministrazione transitoria dell’ONU di Timor-Est, dove il comando dei caschi blu è attualmente assicurato da un generale tailandese.
In un primo momento bisognerà rinforzare i controlli congiunti della frontiera tra le due Timor e di cercare di regolare il problema degli est-timoresi raggruppati in campi insalubri, terrorizzati dai miliziani e il cui rifornimento era già problematico prima dell’evacuazione di più di trecento “umanitari” incaricati di aiutarli.
In assenza di qualsiasi testimone straniero decine di abitazioni sono già state incendiate e si riparla di una cooperazione internazionale per tentare di sradicare la situazione di crescente anarchia.
Mentre a New York il leader indipendentista di Timor-Est Xanana Gusmao pensa che i militari indonesiani “non possono fuggire dalle loro responsabilità incolpando le milizie”, sulla stampa indonesiana e nei corridoi del parlamento di Giacarta fanno volentieri riferimento ad una “cospirazione internazionale” per destabilizzare l’Indonesia. Come succede a Timor-Est da esattamente un anno.